NANNI MORETTI, UNIVERSALMENTE AUTOBIOGRAFICO

Pubblicato da Alessandro Cozzolino. in Dai blogger

nanni-morettiCon l’ultimo film -“Mia madre”- Moretti ci consegna la sua identità più matura e sincera, senza infingimenti ideologici presentandosi come una “maschera nuda” (magari lui, a Pirandello, non ci avrà pensato, ma il collegamento con una delle sue più commoventi novelle, Colloquio con la madre morta, viene spontaneo).  Un film in cui la ragione e il sentimento confliggono senza escludersi nel senso che ti mostra la vita quale è, infinitamente variegata, che può gratificarti (nel lavoro, negli affetti) ma anche crudelmente insultarti. Che ti obbliga, per amore o per forza, a rassegnarti all’evidenza del dolore o delle sconfitte; a confessare con orgoglio o con umiliazione di aver vissuto. Nel film c’è la formazione culturale di Nanni Moretti (padre docente universitario, madre professoressa di Latino e Greco, al Liceo Classico “Visconti” di Roma), la passione per il cinema, per la politica (le lotte operaie); il superamento dello snobismo intellettualistico (di sinistra) e, quindi, la consapevolezza di chi, attraverso l’esperienza e la cognizione del dolore, ha imparato a distillare il succo di una rara e salutevole saggezza. “Quando si è vecchi tutti ti prendono per scemo senza sapere, invece, che la vecchiaia ti fa capire di più. Perché pensi”. Lo dice la madre, inchiodata dall’inizio alla fine del film nel letto di un ospedale salvo gli ultimi giorni quando, ricondotta a casa, morirà. Una straordinaria Giulia Lazzarini, che Moretti ha avuto la sensibilità ed intelligenza di esaltarla quale grande attrice di teatro (strehleriana), dialogante o monologante, in ogni più segreta variegatura e sfumatura espressiva, umanissima e vera nel rendere la dolorosa sofferenza della malattia e della morte soffusa di una tenera, dolce mestizia. Un’interpretazione da antologia che rimarrà impressa nella memoria, da inserire nel testamento spirituale “scritto” in vita da una grande attrice. Margherita Buy –attrice cinematografica- non è da meno. Intensa, misuratissima e padronissima del personaggio, senza sbavature, recita per sottrazione o autoriduzione:  tanto più “si sottrae” tanto più emerge nella sua brechtiana interpretazione. Abbiamo motivo di pensare che a Brecht (più che a Pirandello) Moretti abbia intenzionalmente pensato non solo citandolo espressamente, ma adottandolo come metodo. La Buy è una regista; il film inizia con il ciak dell’assalto alla fabbrica degli operai per occuparla; stop, qualcosa non va; dice ad un’attrice che per essere più incisiva e credibile, non deve visceralmente identificarsi col personaggio gridando a pieni polmoni “lavoro, lavoro”, ma stare a fianco di esso. Lo ripeterà al protagonista (il dirigente della fabbrica), un bravissimo  J. Turturro, lasciando intendere che recitare significa straniarsi. Brecht raccomanda che l’attore deve “indicare, citare” al pubblico il personaggio. Metodo adottato da Moretti, che “si strania” nella Buy, osservando cioè criticamente (indicando al pubblico) la propria nevrotica indole. Autoriducendosi a sua volta col conferire alla sua sobria e distaccata presenza/interpretazione una dimensione “stoica”. A parte Pirandello (implicitamente) e Brecht (esplicitamente), Fellini è cinematograficamente onni-presente nell’ordito o idea del film. Il riferimento a “ 8 ½”  ci sembra abbastanza evidente. Il protagonista è un regista in crisi (Mastroianni), anche coniugalmente, che non sa che film fare procedendo svogliatamente tra dubbi e imprevisti paradossali, nevrotico quanto basta, esistenzialmente alla ricerca di sé e contraddittorio. Si tratta di una metafora –la crisi dell’artista che non riesce a creare, forse per saturazione- ovvero di un’autobiografica introspezione e circospezione. Analogamente in “Mia madre”: una regista gira un film che stenta a compiersi a causa di intoppi, accidenti e incidenti vari, in cui  crede sempre meno, con un rapporto sentimentale (paraconiugale) in frantumi. Moretti, se non arriva proprio  a sfiduciare il cinema, dichiara apertamente di volersi esprimere fuor di metafora, esorcizzando il sospetto dell’esaurimento della vena creativa mediante un vissuto -un’autobiografia- assolutamente non metaforico. A differenza dei suoi film precedenti, infatti, metaforicamente tutti più o meno autobiografici, mai come questa volta egli si è messo allo specchio per rappresentare se stesso, emotivamente e dolorosamente coinvolto in un evento privato oggettivo per quanto “universale”: la malattia e la morte della madre, avvenuta nel 2010. E’ appena il caso di annotare che Fellini, dopo “8 ½” (1963), fece un’operazione analoga con “Giulietta degli spiriti” (1965) chiamando direttamente in causa la moglie (nella vita e nel film).

La  morte della madre, dunque, offre il destro a Moretti, nel pieno della sua maturità artistica e del suo percorso di vita, per fare il punto sulla condizione esistenziale senza sbocco cui sembriamo essere oramai irrimediabilmente tutti condannati. Alla quale come alla morte di persone care, specie se dei genitori, non si vuole credere respingendo o rimuovendo perfino l’evidenza dei fatti (disarmanti nella loro disadorna oggettività i colloqui della regista e del fratello con i medici).

A parte l’interferenza con “8 ½”, Fellini è nominalmente citato insieme ad altri giganti del cinema cui Moretti rende omaggio (Kubrick, Antonioni, L’infernale Quinlan-Welles). Chiassosamente evocato da Turturro che, affacciato al finestrino di un’auto, lungo l’Eur, canta “bevete più latte” (Le tentazioni del Dottor Antonio, episodio di Fellini in “Boccaccio Settanta”, di V. De Sica), chiamando a voce spiegata: “Peppino De Filippo, dove dei?”(protagonista dell’episodio). Citato “alla lettera” in due sequenze, nella conferenza stampa della regista, sul set nella fabbrica, dove si estranea presa dai suoi angosciosi pensieri (vedi “8 ½”, dove Mastroianni svicola sotto il tavolo della Stampa, durante la conferenza, immagina di suicidarsi con la rivoltella etc.); nel dialogo tra la Buy e il compagno, che le sbatte in faccia il suo essere egocentrica, distratta come madre, identificata con se stessa ed il proprio lavoro, anaffettiva e incapace d’amare (vedi “8 ½”, dialogo Mastroianni-Cardinale, lei che lo contraddice nel suo dire ambiguo ed di autocommiserazione con un lapidario, intermittente “…..perché non sai voler bene”). Il riferimento al film felliniano consente peraltro a Moretti di fare una seria riflessione sul cinema il cui ambiente e andazzo, oggi più di ieri, è  insostenibile. Infatti, sembra interrogarsi se abbia senso continuare a fingere così nella vita come nel lavoro (significativa la sequenza in cui, scaduta l’aspettativa per motivi di famiglia, il figlio-fratello, ingegnere, comunica al suo dirigente di volersi dimettere nonostante i ripetuti tentativi di dissuaderlo). Se il teatro è come la vita e viceversa; se il cinema registra la realtà, è pur vero che la vita non è un film anche se si svolge come una “pellicola” destinata all’usura. Il cinema stesso, dunque, è pur sempre finzione, che con l’ultimo film il regista ha inteso ridurre al minimo. Quasi a voler restituire il cinema alla sua primaria funzione di documento “storico”, di postneorealistica solidarietà umana ed onestà intellettuale. “….Questo è un film di merda….Voglio tornare alla realtà. Fatemi tornare nella realtà” grida esasperato l’attore Turturro (l’industriale) dopo vari ciak andati a male per colpa sua. In questa angolazione rientra pure la riflessione sulla scuola e la cultura. La figlia della regista frequenta (poco convinta) il liceo classico, studia (di malavoglia) il latino nel quale è seguita amorosamente dalla nonna fino agli ultimi giorni di vita di questa. Chi ha praticato il mondo della scuola non può non riconoscersi in toto ed essere profondamente toccato  nella/dalla verità e delicatezza con cui Moretti descrive la passione di chi ha a lungo insegnato, di “quanta parte di sé  abbia dedicato a studiare Lucrezio, Tacito…., a leggere….,  di che cosa rimanga di tutto ciò e a chi” (la regista, in casa della madre). La risposta viene da uno dei tanti ex alunni oramai uomo, che da trent’anni, ogni qual volta passa per Roma, va a trovare la sua professoressa di liceo. Ignaro che sia morta, sale in casa proprio quando lei giace sul letto di morte. Nel colloquio con la regista ed il fratello esprime quanto di più lusinghiero possa essere detto di un insegnante: che rimarrà sempre vivo, indelebile nella mente e nell’anima dei suoi alunni, con imperitura gratitudine. Sia per l’interpretazione, i parchi, essenziali gesti, il sorriso appena accennato ma luminoso della Lazzarini, sia per la struggente cifra elegiaca adottata da Moretti, riteniamo che questa sia una delle sequenze più commoventi del film. Insieme a quella finale: lo sguardo di indicibile, smarrita malinconia con cui la figlia-regista accarezza i libri su di uno scaffale. Con la nostalgia delle cose che si hanno prevedendo di perderle. Consapevoli che, una volta perdute, la nostalgia non può più essere la stessa di un tempo.  

                                                                                                                                        Giorgio Maulucci

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