Il CV di Giorgio Maulucci

Laurea in Lettere Classiche (Università La sapienza Roma, tesi in Letteratura Latina, Prof. E.Paratore), docente di Latino-Greco, Italiano-Latino nei Licei: 1969-70, Classico-Scientifico “L.Da Vinci” Terracina; 1973-74, Liceo Scientifico “G.B.Grassi” indi “E.Majorana” Latina, fino a.sc. 1981-82. Nel 1980/81 Concorso nazionale a Preside (il primo nella storia della scuola). Anno sc. 1983-84: preside Liceo Classico italo-tedesco Merano; 1984-85/1990-91: Istituto Magistrale “A.Manzoni” Latina; 1991-92/2008-09: Liceo Classico “Dante Alighieri” Latina. Dal 2010 in pensione. Una vita per la scuola. Per la promozione culturale in genere, per il cinema ed il teatro in particolare. Fin dall’inizio della sua carriera ha inteso la scuola come centro propulsore e fermento di attività finalizzate alla formazione dei giovani e al coinvolgimento della collettività. Ha attivato importanti sperimentazione tra cui il Liceo Pedagogico (1986, Istituto Magistrale), il primo nel panorama scolastico italiano. La sperimentazione Brocca seguita da quella dell’Autonomia (Liceo Classico) con quattro indirizzi. Ha organizzato cineforum nella città e nella scuola ed incontri e/o seminari di sicuro spessore culturale per la qualità e statura degli interventi. Ha allestito diversi spettacoli (curatore-regista, drammaturgo). Attualmente collabora con la Casa Circondariale A.S. di Latina dove tiene un laboratorio di scrittura e teatro, ha allestito due spettacoli di cui ha curato pure la drammaturgia ( “Vedersi dentro.Pensieri,sospiri, ballate di donne dal carcere”, 2012; “ Siamo Donne. Nella commedia della vita”, 2014), protagoniste le detenute, aperti al pubblico esterno e alle scolaresche. Scrive su alcuni quotidiani locali, sull’online BuongiornoLatina, riviste (cinema, teatro, varia umanità). Tiene incontri laboratoriali sulla letteratura italiana, teatro, cinema. Presenta libri di affermati e nuovi autori.

GIANFRANCO PANNONE LEOPARDIANO “SUL VULCANO”/DVD

Pubblicato da Giorgio Maulucci. in Dai blogger

sul_vulcano(presentazione c/o La Feltrinelli di Latina, 9.02.15, ore 18.30)

“Sul Vulcano”, l’ultimo documentario di G. Pannone (2014), di fatto è un vero e proprio film sia per la sceneggiatura, che definiremmo una  scrittura “drammaturgica, sia per il respiro epico-narrativo e per il ruolo che hanno le persone intervistate, autentici personaggi popolari. Pannone è nato a Napoli. Nel ’96 realizzò “A Sud” dove aderisce palesemente alle sue origini. Questa volta, invece, è senz’altro più straniato quindi artisticamente “superiore”. Nei precedenti documentari, per esempio: “Latina-Littoria, una città” (2001), “Scorie di libertà” (2012, centrale nucleare Borgo Sabotino), “Il sol dell’avvenire” (Festival di Locarno,2008), “Ma che storia”(2010, sul Risorgimento)-, volente o no, è intellettualmente autoreferenziale o di parte, a tratti didascalico. Il Vulcano lo ha reso, invece, leopardianamente a-ideologico come se avesse subordinato l’ideologia al sentimento poetico, in linea con la visione autenticamente democratica della vita e della società del poeta recanatese; realistica del popolo napoletano, che nel film è l’interfaccia di quello italiano, vittima di un’epoca “superba e sciocca”, dell’illusione che cesseranno  privilegi e  guerre. ”….Cresci, cresci alla patria, o maschia certo /Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli/ Italia crescerà, crescerà tutta /Dalle foci del Tago all’Ellesponto /Europa, e il mondo poserà sicuro….” : così Leopardi, con sarcastica ironia (Palinodia al marchese Gino Capponi, Napoli, 1835). Il discorso sociale, la denuncia, infatti, emergono da una riflessione critica dettata da una sensibilità, una solidarietà che autorizzano a parlare di politica nell’accezione più nobile ed etimologica. Come ne “La ginestra”(1836), testamento spirituale del Leopardi, che non a caso spicca tra le molteplici citazioni letterarie o poetiche di “testimoni” autorevoli tra i quali Plinio il Giovane, Malaparte, Ortese, perfino il granitico Kant (letti da fior di attori tra cui Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Iaia Forte), citazioni né invasive né celebrative, che non interrompono l’andamento narrativo bensì lo contrappuntano significandolo, avvalorando il “testo” e lo spessore umano delle interviste; proiettando nel mito il vulcano: l’antica favola  in versi partenopei che narra l’amore di Vesuvio per Capra, una mitologia modernizzata. Insomma, Pannone ha avuto il grande merito di evitare di fare della cattiva “letteratura” (a noi ha fatto un regalo!). Per inciso:  “Ma che storia” è introdotto da alcuni versi della canzone giovanile “All’Italia”(1818). Le interviste peraltro si risolvono in monologhi/dialoghi essenziali e pregnanti  (tranne qualche eccezione), in frasi ed incisi di persone che si configurano come i personaggi di un coro, che “cantano” a bocca chiusa. Nel senso che Pannone ha avuto la felicissima intuizione di doppiare con la loro stessa voce (fuori campo) gli intervistati, sottolineandone la forza espressiva ed emotiva, l’humus popolare di una umanità che ha fatto l’abitudine alla precarietà e alla miseria, all’arroganza del potere prima ancora che alla natura distruttiva del Vesuvio. Conferendo, insomma, un maggior impulso narrativo e visivo alle testimonianze orali. Attori presi dalla strada, dunque, secondo la migliore tradizione e la grande lezione del Neorealismo cui Pannone si sente sempre debitore, non solo di Rossellini (pensiamo a “Stromboli”), ma soprattutto, per questo film, di F. Rosi (“Le mani sulla città”). Del resto, gli spezzoni di filmati o riprese d’epoca delle eruzioni del Vesuvio, in bianco e nero, possono ritenersi una evocazione di quella stagione. Esteticamente peraltro concorrono a creare una suggestiva dissonanza armonica con la bella fotografia a colori, a sottolineare lo stile “drammatico” del film. I cui attori-personaggi, oltre che presi dalla strada ovvero dai luoghi a ridosso del Vesuvio, sembrano affacciarsi dall’abisso Italia. Di un paese bellissimo di cui Pannone rappresenta i guasti e le deturpazioni che, nel tempo, l’hanno devastato tramutandone la bellezza in una sconfortante bruttura. L’ “esplorazione” di quel che resta di Pompei è emblematica, una sorta di “messa da requiem” per il patrimonio artistico italiano, in cui il  “dies irae” risuona impetuoso e minaccioso non solo da quelle antiche rovine mandate in malora, ma anche da quelle ben più recenti della periferia, del sottosuolo, del paesaggio urbano di Napoli aggredito dalle “mani sulla città”; rovine che si estendono a tutta l’Italia. Nel Dies Irae del Requiem di Verdi il coro, protagonista assoluto, è il tramite di un Dio inesorabile, nel film di Pannone il Vesuvio è il monito di una divinità biblica, che si erge terribile e punitrice sui “peccatori”, consapevoli o inconsapevoli. A commentare i “peccati”, lo scempio del degrado e della corruzione una corifea, voce solista e narrante (in presa diretta): una donna che gestisce una serra di prodotti agricoli alle falde del vulcano, situata a ridosso di cumuli di rifiuti o discarica o fogna a cielo aperto. Il suo parlare pausato ma deciso denota quell’indole filosofica tipicamente napoletana –eduardiana- di chi è oramai vaccinato da un’ironica ed autoironica rassegnazione. Un pizzico di benevola ironia lo si riscontra pure miracolo di S.Gennaro (reperti filmici), parte integrante e irrinunciabile di quel folklore tra sacro e profano che caratterizza la napoletanità. Da Pannone sapientemente indicata all’inizio del film con una nenia detta-cantata da donne oranti; con un canto sacro-profano verso la fine, fuori di una chiesa, intonato da una cantante androgina, bellissima voce; volutamente provocatorio e assai suggestivo. L’impiego delle canzoni, gli “intermezzi” letterari, il coro dei personaggi, il cromatismo del paesaggio, la dicromia/sincresi della fotografia (bianco-nero, colore)  sono consoni ad un film senz’altro corale, ordito come una partitura poetico-musicale; che per gli umori e i sentimenti rimanda idealmente a “I dieci comandamenti” di Raffaele Viviani, assolutamente laici ed intransigenti. Alla stregua di Viviani, Pannone ha disegnato un’acquaforte suggestiva e incisiva di Napoli e della sua gente, stoicamente rassegnata, equidistante così dalla gioia come dal dolore. Il Vesuvio, in definitiva, è il personaggio protagonista che nella sua possente fisicità, assomma e assimila in sé persone, cose, case di Napoli. Un Giano bifronte, protettore come S. Gennaro, distruttivo e ingannatore come Lucifero, che dalla sua bocca vomita lava e fuoco per fare in qualsiasi momento piazza pulita della povera umanità assiepata ai suoi piedi. Poderoso monumento e icona di un’Italia da tutti ammirata e turisticamente assediata; scelleratamente deturpata e offesa a spese degli italiani i quali, loro malgrado, pagano le colpe di una politica che da madre l’ha resa perfida matrigna. Che li ha portati ad irridere quelle “sorti magnifiche e progressive” da Leopardi sarcasticamente sbeffeggiate ne “La ginestra”, un anno prima di morire, a Torre del Greco (muore nel 1837). La potenza distruttiva del Vesuvio, secondo il regista, può identificarsi col male assoluto inteso sia come natura sia come cattiva politica, da cui l’umanità – e la società italiana- fatica a difendersi. Per fortuna la filosofia ed il fatalismo soccorre i napoletani -e gli italiani-, che riescono ad esorcizzare la paura (delle eruzioni), le tragedie, le crisi economiche e non, escogitando le più diverse o impensabili alternative (gli abitanti sotto il Vesuvio, chi più chi meno, hanno provveduto ad un ricovero di riserva); a rinviare a domani il problema. Lo stesso Plinio il Vecchio, morto per le esalazioni vulcaniche a Capo Miseno, nel 79 a.C. (da una lettera del nipote Plinio il Giovane in risposta allo storico Tacito, citata nel film), spinto dalla incontenibile curiosità scientifica ad indagare sui misteri e miracoli della natura, aveva di essa una visione drammatica, fatalistica avvertendola come qualcosa di precario, come il destino dell’uomo appeso ad un filo. Plinio, Leopardi, Pannone: la valenza sociale e politica del film (poeticamente a-ideologica) è leggibile nella resistenza ad oltranza, in senso attivo e passivo, contro il male assoluto di una politica diabolica. Una resistenza che ha il volto e la voce di un popolo sul quale si erge maestosa nella sua bellezza, funesta nella sua rabbia, la voce tonante e fumante del “formidabil monte/sterminator Vesevo”. Contro il quale altro non resta alla “umana compagnia”, agli uomini tutti che “essere tra sé confederati” per fronteggiare il lavico serpente della malvagia e maledetta “compagnia” a delinquere.

 Giorgio  Maulucci

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