“CON GLI OCCHI DEL DOPO”: LO SGUARDO DI TOMMASO (PARTE 2)

Pubblicato da Alessandro Cozzolino. in Dai blogger

con-gli-occhi-del-dopoFiglio di povera gente, Tommaso attraversa tutte le fasi esperienziali della fanciullezza ed adolescenza. Di essa ha gelosamente e gioiosamente conservato, con l’acutezza del cuore e della mente, una sapiente semplicità, che traspare dalla levità della scrittura e limpidezza di una coscienza ed un rigore morale elevati, esemplarmente kantiani. Dove si sono sedimentati gli umori e i sudori, gli odori e i sapori genuini di un paese arcaico, dal mitico passato perennemente vivo in un presente antico e nuovo, in cui il tempo ciclico si alterna a quello lineare. Dove i pregiudizi e i malefici secolari si mescolano ai benefici della modernità, tra i più socialmente e democraticamente importanti la riforma della Scuola Media (anni Sessanta), preclusa nel primo dopoguerra alla maggior parte dei bambini appartenenti alla classe sociale subalterna; orientati, si sa, all’Avviamento, la scuola dei poveri e non intelligenti (!). Un paese dove il bambino di allora ritorna puntualmente ogni volta per mettere alla prova la su ingenuità adulta. Per ascoltare ancora, come in un sogno, il padre -“Il mio Omero”-, raccontare storie meravigliose, che incantavano grandi e piccini. “A raccontare, lui, mio padre era di una bravura da fare buona concorrenza all’antico Omero.[…] Raccontare era un suo talento naturale. Nessuno si annoiava. Facevano parte del suo repertorio favole, leggende, storie vere e verosimili. Molte erano quelle classiche della tradizione italiana, che più tardi uno dei più grandi scrittori contemporanei, Italo Calvino, raccoglierà insieme in due volumi. Mio padre le aveva ereditate dal vivo racconto di altri […] Altre ancora, come mi confessò più tardi, erano creazioni proprie, se le inventava lui con la sua fantasia”. L’arte di raccontare, appunto, che il figlio (l’autore) dimostra di avere ereditata appieno (non a caso, sulla prima pagina del libro, bianca, in alto leggiamo: Fabula). A conti fatti, si tratta di una serie di racconti, brevi novelle o episodi, a seconda delle vicende, dal sapore ora della favola (La paura del buio) ora dell’apologo (La gallina d’oro) ora dell’idillio (Salvato da una capra rubata ai tedeschi) ora dell’elegia (Il passaggio), che confluiscono in un vero e proprio romanzo di formazione orchestrato dal narratore onnisciente. Per la delicatezza e lo stile, la musicalità della scrittura, la spontaneità delle situazioni, la sobrietà del linguaggio, vengono in mente J. De La Fontaine (che presume Esopo e Fedro), lo stesso Calvino (citato nel libro); per la crudeltà di certe descrizioni, i Fratelli Grimm (incredibilmente realistica e crudele “Il compagno di banco – L’aglio contro la bacchetta”). Ogni episodio, i cui titoli sembrano insegne luminose, didascalie compendiose e ammiccanti di sicuro richiamo (Guillaume Chpatline per noi Uill quando mi consigliò di leggere Marx; Cosa non facevamo pur di andare al cinema!; I rosari di mia madre Le giaculatorie di mio padre ; Il mare è passione, neanche i naufraghi ti fermano), può dirsi il movimento di una sinfonia: allegro, allegro ma non troppo, andante, maestoso, presto etc. Come “Il concerto delle finestre”, che a seguito dei restauri delle case acquistati dai ricchi signori e la sostituzione delle “vecchie finestre di legno con vetri non doppi e non sigillati dal silicone”, non suonano più. “Ora Sperlonga è diventata come un organo alle cui canne non viene fatto più giungere l’aria pompata dal mantice. Il mantice era il vento che soffiava nelle loro fessure laterali, in alto e in basso, attraverso le quali passavano spifferi di diversa intensità e velocità, producendo emissione di suoni con tonalità e volumi diversi. La loro combinazione era tale da dare l’impressione di strumenti a fiato naturali”. Dell’organo, quello vero, si parla ne “Il gatto e la volpe”: i discoli del paese, entrati di nascosto in chiesa, rubarono vari pezzi di piombo per rivenderseli. Come il “Concerto con le campane”, che racconta l’esperienza di aiutante campanaro dell’autore ancora bambino, costretto dalla madre ad andare in chiesa, ogni domenica mattina, alle sei e trenta! “Nelle feste importanti venivano suonate tutte e quattro. […] Era come suonare un concerto. In poco tempo divenni lo specialista, il concertista delle campane. […] Più di uno se ne accorgeva quando c’ero io alle campane del piano alto del campanile. Di lassù io le facevo cantare; e cantavo anch’io”. Una iniziazione alla vita quella del bambino e giovanetto Tommaso, avvenuta tra mare e cielo; un “apprendistato”, ovviamente, diverso da quello sperimentato presso un fabbro, con buoni risultati (“Scolari lavoratori. Apprendista fabbro-meccanico”), senz’altro propedeutico alla futura formazione nonché salutevole. Infatti, non solo l’eccellente maestro ed il parroco, ma lo stesso fabbro convinsero i genitori che quel bambino doveva assolutamente studiare essendo dotato di sicura intelligenza e volontà. “L’idea della volontà che fa lavorare e mettere a frutto l’intelligenza era un chiodo fisso del maestro […]. Secondo la sua teoria, una intelligenza straordinaria senza volontà e una volontà anche ostinata senza intelligenza sono sprecate, non approdano a niente. Solo una volontà o una intelligenza volitiva può arrivare a tutto”. Per questo il maestro citava agli scolari sempre Alfieri, che si faceva legare per studiare (“Volli, ostinatamente volli”). Grazie a quei tre pedagoghi, ognuno a suo modo, il piccolo La Rocca, cresciuto felicemente in una salvifica povertà, nella modestia ed onestà, poté frequentare la Scuola Media a Fondi, il Ginnasio-Liceo ad Anagni, presso il Pontificio Collegio Leoniano (i Gesuiti), l’Università ad Urbino ed intraprendere una brillante carriera come docente universitario e scrittore. Fino ad inoltrarsi negli affascinanti sentieri della Filosofia grazie al suo maestro, il filosofo contemporaneo Emanuele Severino. E’ chiaro che il viaggio sentimentale e culturale, sociologico -ed antropologico- che La Rocca compie a bordo del suo singolare libro, parte dal pensiero, da un’idea precisa: l’idea del tempo e della durata. Che potremmo sintetizzare in una unità endiadica: l’eternità e un giorno. “I brevissimi istanti di rapimento davanti ai sassi del mio luogo d’origine restano gli unici momenti di eternità che finora ho vissuto [….] Mi piacerebbe che la percezione che provai in quegli istanti di ‘venire da lontano e andare lontano’, non solo non scomparisse mai, ma si tramutasse in qualche reale sorpresa dopo la fine dei giorni” (“Durare più delle pietre”.La prima illuminazione). Un’idea alimentata dall’incomparabile paesaggio di Sperlonga, dalla vista del  Circeo illuminato da incredibili gradazioni di luci e colori durante l’intera giornata fino a Terracina, Ischia, Capri. “L’immutabilità e al tempo stesso, l’incessante movimento di quella natura mi impressionavano e affascinavano. Mi lasciavano incantato e, al tempo stesso, incapace di afferrarne l’origine, di comprendere il senso e immaginarmi il destino. Non mi ha mai abbandonato la sensazione vissuta lì e in quel momento, in quel contesto di storia consumata ma non finita, di natura perenne ma non immobile, pur sempre viva: la sensazione di venire da lontano e di andare ancora lontano […] Restavo ugualmente stupito nell’ammirare, poi, l’altezza inafferrabile di quel cielo sopra di me, che nel mio paese per 361 giorni all’anno era sempre di azzurro intenso […]. Le pietre, quelle naturali delle montagne e quelle artefatte degli Antichi, dovevano essere importanti, ma sempre meno di me. ‘Se esse durano e sopravvivono così tanto,mi dicevo, io, che non sono da meno, non posso durare meno di loro’. […]. Chi poteva immaginare che vent’anni dopo quella esperienza mi sarei trovato impegnato a scrivere la mia tesi di laurea sulla filosofia di Emanuele Severino, che parlava del destino eterno delle cose?” (ibidem). Nella scrittura di La Rocca c’è una vena poetica, un ritmo cadenzato come l’increspatura del mare al mattino o al tramonto. C’è un pensiero filosofico, come nella poesia del Leopardi, protagonista di uno dei più bei libri di Severino, “Il Nulla e la Poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi”. L’infinito è un pensiero filosofico. “L’illusione”, scrive Severino,“non sta dinanzi ai propri occhi come illusione e finzione, ma come ‘pensiero’ ”. La Rocca è inversamente proporzionale al Leopardi: entrambi inscindibilmente legati al paese, esplicitamente, gioiosamente amato e cantato dall’uno, implicitamente, dolorosamente e problematicamente dall’altro. Entrambi protesi verso l’infinito, oltre la siepe. Che quando la si scavalca, il sogno svanisce. “Fuori di Recanati non sogno mai”, scrive Leopardi alla sorella Paolina, da Bologna. Infatti, tornerà nel suo borgo natio e là sarà di nuovo assalito dall’empito irreprimibile della poesia (i “grandi” idilli). La Rocca non può non tornare a Sperlonga, è più forte di lui. Per riprendere il respiro, per ossigenare l’anima e riempire di nuovo gli occhi della bellezza imperitura della natura, del paesaggio. Che nel libro assume i contorni magici di una figura antica, di un dio marino.

Giorgio Maulucci

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