“CON GLI OCCHI DEL DOPO”: LO SGUARDO DI TOMMASO (parte 1)

Pubblicato da Alessandro Cozzolino. in Dai blogger

con-gli-occhi-del-dopoNon capita spesso di dover presentare un libro di un autore mai conosciuto prima e ritrovarsi, di colpo, a tu per tu con un compagno di strada, un amico di sempre. Una persona con cui scopri di aver condiviso, senza sospettarlo, esperienze di vita, professionali, interessi, passioni culturali ed intellettuali. In sostanza, accomunati dalla stessa Weltanshauung. Plutarco avrebbe potuto inserirli nelle sue “Vite parallele”! L’uno nato nel 1943, a Sperlonga (LT), sotto i bombardamenti, per sfuggire ai quali la madre pensò bene di rifugiarsi nella Grotta di Tiberio, di fronte alla loro casupola, dove lo partorì e lo allevò col latte di capra. L’altro, classe 1944, nacque durante lo sfollamento, nella campagna del frusinate (registrato ad Amaseno), in un casolare di generosi contadini, allevato col latte d’asina. Entrambi uomini di scuola, intellettuali laici,  appassionati di cinema. Dopo aver pubblicato vari libri e scritti teorici o scientifici (di Filosofia, di cui è stato docente all’Università di Ferrara, dove vive in alternanza con Vienna, città della moglie), con pudore e discrezione Tommaso La Rocca confessa di essersi deciso a scrivere un libro diverso, autobiografico, in realtà, la storia di un’anima: “Con gli occhi del dopo”. L’anima di un essere semplice cioè “bambino”, che ha conservato il candore e lo stupore di un’età limbica. Come l’Arturo della Morante nell’isola di  Procida, l’equivalente di Sperlonga, per l’autore l’infinitamente grande. “Quella, che tu credevi un piccolo punto della terra, /fu tutto. E non sarà mai rubato quest’unico tesoro / ai tuoi gelosi occhi dormienti./ Il tuo primo amore non sarà mai violato” (E. Morante). Praticamente, delle 280 pagine di “Con gli occhi del dopo”, la buona metà di esse insiste sugli anni della scuola elementare con rapide incursioni nell’età adulta e presente. Del bambino di allora l’autore ci dice tutto: pensieri, emozioni, esperienze e monellerie tanto da delinearne il carattere, la caparbietà, l’orgoglio di esser figlio di una contadina analfabeta e di un padre pescatore: “Il figlio del pescatore sulle orme di Ulisse” è il sottotitolo del libro. Un padre mitico, un eroe a tutto tondo, bestemmiatore incallito, spirito libero, indomito nello sfidare le colonne d’Ercole cioè i pericoli del mare pur di garantire la buona pesca per il sostentamento della famiglia. Uno spirito laico, onestissimo e di profonda umanità che comunque aveva il suo Dio. “Guarda questo cielo pieno di stelle, io in chiesa non ci vado mai, questa è la mia cattedrale. Nessuna chiesa ti fa sentire vicino a Dio come questa cupola stellata. Che ne sanno i preti e le bigotte di questo Dio! […] Quando sotto la mia lampara vedo comparire un banco inaspettato di pesce, mi viene spontaneo ringraziare Dio”. I riferimenti al mito omerico, quindi, ci sono ma nulla hanno a che fare con rievocazioni letterarie ad usum delphini, intendiamo la lettura in chiave psicologistica o psicoanalitica del mito. Tanto è vero che nel corso del racconto non si è indotti ad identificare il padre con Ulisse, il bambino con Telemaco essendo entrambi fisicamente, prepotentemente reali, col loro vero nome e, al tempo stesso, mitici loro malgrado in virtù di quei luoghi leggendari, la Grotta di Tiberio, Amyclae, il Circeo. E’ sorprendente come l’autobiografia di La Rocca, fin dall’inizio, confina e si intreccia con la storia: le origini, l’evoluzione di una terra e di un luogo arcaico –Sperlonga-, l’infanzia di un bambino riverberano nitidamente l’Italia del dopoguerra e gli echi della guerra (racconto/episodio “Sotto le bombe sulla linea di Cassino”). Ancor più sorprendente è la naturalezza con cui egli “cataloga”, cita e descrive puntualmente una folla di persone, fatti, avvenimenti, episodi ed aneddoti anch’essi assolutamente reali, a tutt’oggi identificabili e verificabili. Di primo acchito, si direbbe una cronaca o un diario. Eppure le persone si fanno personaggi fantastici, chiamati dall’autore ad animare quel “palcoscenico naturale di Sperlonga”, dove il popolare attore Raf Vallone scelse di costruirsi la villa (anni Cinquanta), la cui costruzione è puntualmente documentata nel libro al pari di un evento mitico; divenuta essa stessa un emblema del paese (in appendice, tra le varie foto d’epoca, una cartolina illustrata della villa con la didascalia “Villa di Raf Vallone”). Nobilitato, peraltro, dal ritrovamento di reperti archeologici d’inestimabile valore tra cui il gruppo inizialmente creduto del Lacoonte, identificato ed accertato, in seguito, come quello di Ulisse e Polifemo, oggi fiore all’occhiello di Sperlonga insieme al Museo. Nel capitolo-racconto “L’inizio inaspettato. Sulle orme di Ulisse” -quasi un prologo- trapela l’orgoglio della gente del luogo non fosse altro che per esserselo conquistato. Vi si narra, infatti, della sommossa popolare che riuscì a bloccare con picchetti diurni e notturni di grandi e piccini (tra cui l’autore), non solo il tentativo del trafugamento dei reperti, ma il trasferimento del pregevole gruppo a Roma per decisione della Sovrintendenza Archeologica. A distanza di tanti anni la vicenda, assolutamente aderente ai fatti, è sentitamente partecipata dall’autore e perciò senz’altro coinvolgente e “spettacolare”. Assai apprezzabili, in generale, sono tutte le considerazioni politiche o ideologiche a margine, sempre sul filo dell’ironia, mai compiaciute, appena accennate ma comunque efficaci ed eloquenti. La Rocca, scrittore fine e di rara saggezza, lascia al lettore la facoltà di elaborare, a rigor di logica, tutto il negativo di una politica basata sugli abusi, i soprusi, le clientele. Egli allude alla politica nei modi e col linguaggio che esige la cosa artistica o letteraria cioè con le armi critiche della cultura, l’intelligenza e l’arma affinata della scrittura. Con discrezione ma al tempo stesso con la lucidità di chi non ha dimenticato.

 Due sono i leit motiv del libro: il contrasto tra i potenti del paese e gli umili, i “Don” e i poveri anonimi; la scuola. Sì, gli umili di manzoniana memoria, filtrati attraverso Gramsci, dunque, il popolo senza ombra alcuna di populismi. Uno squarcio politicamente significativo e toccante il racconto “L’occupazione della casa popolare. Gli abusivi”, in perfetto stile neorealistico (vi leggiamo un’analogia con “Ladri di biciclette” di De Sica), uno dei pochissimi racconti se non l’unico dal sapore drammatico. Un’occupazione sinistramente pilotata dal sindaco del paese, che riflette appieno il sistema politico italiano, malato e infetto, da sempre minato alla base dal clientelismo e dalla ingiustizia sociale. Anche tra i maestri prevalevano i “Don”, supponenti e non sempre accreditati. “La maggior parte dei maestri della mia scuola provenivano dalle famiglie dei Signori del paese”, gli unici che potevano permettersi di far studiare i figli. “I loro nomi erano tutti preceduti dal Don […] Il Don da noi, come in gran parte del Centro-Sud d’Italia, si dava, oltre che ai preti, appunto anche ai Signori, proprietari terrieri e di case. Non facevano parte della  cerchia dei Don un maestro supplente e il Direttore della scuola”. La scuola è uno dei temi cruciali insieme al delicato ed estremamente importante ruolo dell’insegnante che, quando è persona di profonda cultura, vero umanista, incide significativamente sulla coscienza e formazione dei giovani. Tale è stato l’insuperabile suo maestro, Leone La Rocca, mai più dimenticato (a lui è dedicato il libro) per avergli trasmessa la passione e la curiosità di leggere; per aver saputo “rappresentare” ai propri alunni un mondo variegato e armonico quale è quello del sapere e della conoscenza. “Senza le basi scolastiche del suo insegnamento, difficilmente avrei potuto proseguire i miei studi Medi e Superiori” (L’omaggio al maestro). Mediante l’elogio del suo indimenticato maestro, l’autore tesse una illuminante lode dell’imparare oltre che della indispensabile umiltà intellettuale. Con l’orgoglio di uno spirito laico (come il padre), da vero umanista -non esitiamo a dire di stampo gramsciano- stigmatizza la discriminazione tra ricchi e poveri, la tendenza a voler mantenere gli scolaretti del paese in uno “stato di minorità” cioè di analfabetismo (denunciato da Kant in suo noto manifesto, “Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?”). A riguardo, con garbata ma pungente ironia, riporta un testimonianza postuma. Un giorno, alcuni maestri Don e qualche Signore Don, nella piazzetta di Sperlonga, si avvicinano al Maestro Leone La Rocca (un non Don) ritenuto, neanche a dirlo, un sovversivo; uno di loro gli “consiglia” di non aprire troppo gli occhi  a quei ragazzi “altrimenti rischiano di vedere e capire troppo”. Una larvata intimidazione. Insomma, se vanno tutti a scuola, chi la zappa la terra?!  “Il  mio maestro non bendò mai gli occhi dei suoi ragazzi. Anzi, glieli fece spalancare dopo quell’avvertimento”. L’autore non si erge mai a giudice, esprime il suo dissenso sorridendo se non commiserando quei poveri di spirito. Nell’episodio “Durare più delle pietre” cita un profondo pensiero di Kant (sul quale avverte di aver tenuto dei corsi e scritto dei libri nell’ultimo decennio dell’insegnamento universitario) confessando umilmente di ritrovarsi come “uomo e studioso inconsapevolmente sulle sue orme […] ripensando a quella mia originaria percezione di eternità e di infinità […] dell’eterna infinitezza dell’universo e il valore incommensurabile della coscienza e della dignità dell’uomo”.

Giorgio Maulucci

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